Satureja montana L.

Santoreggia

Santoreggia: dal latino satureia(m) avvicinata a sanita “salute”, per le sue qualità medicinali. Altri autori sostengono che satureja derivi da “satiro”, per certe proprietà afrodisiache della pianta o, con ancora maggior fantasia, perché la pianta è un po' pelosa, come lo erano i Satiri. Dioscoride cita la Santoreggia col nome Thimbra; Plinio la chiama Cunila, da cui il nome Coniella ancor oggi in uso in Toscana; altri la chiamano “Peverella, per essere acutissima come il pepe.”

Santoreggia
Santoreggia

Genere Lamiaceae (Labiatae)

Sinonimi Calamintha montana

L'uso in cucina

Le foglioline di Santoreggia montana (la Santoreggia ortense ha un aroma meno intenso) arricchiscono di sapore i minestroni di verdure; sono particolarmente indicate per cuocere fagiolini, fagioli, lenticchie, fave ed altri legumi (per le proprietà carminative che ostacolano la formazione dei gas intestinali e prevengono le “ventosità” dai terrificanti effetti), ma arricchiscono anche piatti di carne, in particolare coniglio ed agnello e si utilizzano nella preparazione delle verdure sotto aceto e degli insaccati.
Pietro de' Crescenzi, in un suo trattato degli inizi del Trecento, fornisce la ricetta per conservare le rape, prodotto alimentare molto importante all'epoca, sotto sale, con Santoreggia e semi di finocchio.
Apicio, dall'antica Roma, tramanda la ricetta di una salsa alla Santoreggia, per accompagnare degnamente la murena arrosto; per conservare le rape, invece, consiglia le bacche di mirto, con miele ed aceto.

Proprietà medicamentose

I manuali di farmacologia classificano l'Herba Saturejae negli aromi carminativi, per le proprietà già richiamate, ma alle preparazioni con le foglie e le sommità fiorite della Santoreggia sono state attribuite anche proprietà antimicrobiche contro funghi e batteri; antispasmodiche; astringenti, utili nelle diarree; coleretiche, digestive e stomachiche, efficaci nelle atonie gastriche, negli spasmi e nei disordini intestinali; stimolanti; vermifughe e perfino virtù afrodisiache dagli effetti talvolta incontrollabili.
Di quest'ultima proprietà testimonia Marziale, scrittore latino di origine iberica del I secolo d.C., beffeggiando, in uno dei suoi celeberrimi salaci epigrammi, un tale Luperco, irrimediabilmente impotente, al quale nulla potevano più giovare Santoreggia o rucola.
Anche Ovidio cita questa proprietà della Santoreggia, ma ne sconsiglia l'uso dicendola erba nociva ed a suo giudizio, veleno. Il Capitulare de villis di Carlo Magno, del 812, per la stessa ragione, proibiva ai monaci di coltivare ed utilizzare la Santoreggia.
Plinio, tra i rimedi del suo tempo, sui quali spesso ironizza, cita la Santoreggia con cenere della testa del pesce persico, sale e olio, per le affezioni uterine.
Con decotti ed infusi di Santoreggia la medicina popolare cura crampi, coliche e dolori di stomaco, conati di vomito, mal di gola, tosse, attacchi d'asma, vertigini e stati di depressione psico fisica; per via esterna si spera di curare con la Santoreggia i reumatismi ed una sua blanda azione antisettica si stima utile per guarire ferite, piaghe ed ulcere. Dioscoride dice che le proprietà terapeutiche della Santoreggia sono in tutto analoghe a quelle del timo e consiglia Satureja trita per il morso del serpente Cenchro.

L'impiego nella cosmesi

Tra tante altre virtù alla Santoreggia si accredita la capacità di arrestare la caduta dei capelli; basterebbe questo a farla tenere per pianta miracolosa!
Pediluvi e bagni alla Santoreggia sono detergenti, deodoranti e tonificanti; particolarmente indicati i suffumigi per le pelli grasse.

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